Strana storia di una Gatta in venti anni di peripezie.

Fu allora che cominciarono i guai,
quando nel 1977, dopo 350 repliche,
decisi di riporre la Gatta per conservarla.
Ma dove?
Purtroppo non avevo un teatro!
Feci appena il gesto di chiuderla nel cassetto,
che quella con un balzo si trasformò in una lepre
e cominciò a correre proprio come lepre;
ed io a correrle dietro:
- Per l'anima dei tuoi morti, fermati! -
Macché!
Eppure dopo un anno, alla fine la raggiunsi,
allungai la mano e mi ritrovai tra le dita
l'ala di una civetta che prese a sghignazzare come una civetta.
- Per l'anima dei miei morti, aspetta!
- Macché! Quella volava, svolazzava,
ed io dietro per 365 notti.
L'ultima notte dell'anno pensai:
"Di qui dovrà passare",
ed infatti passò, io quasi l'agguantai,
ma ecco che lei diventò una pianta di maggiorana e,
mentre cercavo di strapparla dal vaso,
quella cresceva a vista d'occhio allungandosi verso l'alto,
ed io ad arrampicarmi,
cercando di arrestarne la crescita perché pensavo:
"come faccio a conservarla"?
Ma alla fine dell'anno mi accorsi che l'altezza della pianta
era di una trentina di centimetri,
ero io ad essere diventato piccolo come un bruco,
e non avevo fatto altro che percorrere in un anno le sue foglioline.
Non ci vidi più!
Cercai di riprendere la mia statura,
quand'ecco che la pianta di maggiorana
si trasformò in un bambino nudo di tre anni,
alto quanto un palazzo,
con un grande sombrero in testa
e con un cazzo enorme col quale mi pisciò addosso,
ridendo come un matto.
- Maledizione, devo conservarti, cazzo! -
Ma il bambino continuò a pisciare per un anno,
ed io in una barchetta di carta navigavo
nel tentativo di aggrapparmi al suo oggettaccio
e catturare la gatta.
Dopo un anno di peripezie,
illudendomi di essere Ulisse,
agguantai i coglioncelli
e mi accorsi che stringevo solo i capezzoli
di una vacca nera come la pece.
Schizzò il latte,
e la vacca muggendo corse via fino a Madrid,
e poi a Ebron, a Damasco, in Marocco,
a Mossul, e giù nel Kenia,
e poi su e giù a destra e a sinistra per un anno ancora
(Pasolini era già morto, ma che ci faceva ancora vivo da quelle parti?).
Il due novembre, in anticipo,
mi aggrappai alle sue corna d'oro,
ed ella divenne una durissima barba
come quella di un dio babilonese,
di un barbone,
o anche di Che Guevara.
Come si fa a conservare una barba simile?
Ma i duri peli di quella barba
non erano altro che le ottantotto corde di un antico pianoforte,
fortepiano, per G. S. Bach che mi aveva fregato!
"Son sei sorelle son tutte belle".
E le corde lì a vibrare sinfonie incompiute,
eroiche, pastorali, patetiche, italiane,
dal nuovo mondo,
ma Beethoven scoreggiava secondo il suo solito,
e Marx cantava canzoni di Kurt Weill
travestito da Wotan.
Non ne potevo più!
La barba - fortepiano finalmente tacque
perché era passato un altro anno,
e quando con un martelletto tentai di suonarla,
mi accorsi che quelle corde erano solo le viscere di una balena.
Insomma ero io ad essere stato conservato in quel ventre
e non me ne ero accorto:
inghiottito ma non del tutto digerito.
Non mi scoraggiai,
perché sapevo che dopo un anno
quella si sarebbe trasformata di nuovo,
ed io mi sarei trovato fuori.
Invece mi sbagliai perché rimasi lì dentro per sette anni,
e fui io a trasformarmi in cose inutili che non ricordo.
Ricordo solo che un bel giorno,
scaduto il termine,
ella tentò di sfuggirmi diventando un canale televisivo senza numero.
Ed hai un bel premere i tasti del telecomando,
che tutto ti viene fuori tranne lei!
Eppure lei seguitava a correre in forma di un unico fotogramma
per un milionesimo di secondo.
Quando finalmente acchiappai il fotogramma fuggente,
esso era tutto nero:
forse era il buio, o forse era Lei, la nera, la Madonna nera ...
ma quella di Montevergine o di Cestocova?
Se almeno il nero fosse stato meno nero!
A meno che non mi trovassi nel buco del culo di un porcospino,
come mi era stato predetto.
In ogni modo, dopo un anno ancora,
riuscii ad accendere un lumino.
Non l'avessi mai fatto!
Una goccia di cera cadde sul suo viso nero ed ella,
urlando di essere tradita,
si illuminò divenendo un sipario rosso,
che si apriva ai lati e seguitava ad aprirsi,
mentre io mi accanivo a cercare di afferrarlo in un senso o nell'altro,
e quel sipario (sempre lei!)
scopriva tremende opere serie e buffe
su un palcoscenico che si rimpiccioliva sempre più,
mentre il velluto continuava a scorrere
nello spazio di un immenso cimitero.
Si aprì fino alla fine dell'unico atto durato un anno,
e la ribalta si spense.
Pensai: "Ora che si chiude, l'afferro e non mi scappa più".
Ma quando mi aggrappai alle frange d'oro del velluto,
il sipario si incendiò,
ed ella fumando era divenuta un lungo caffè bollente
che mi scottò il palato.
- Per l'anima dei nostri morti, ti bevo tutto lo stesso! -
Ma ella si condensava sempre più,
mentre io tentavo di leggere nel fondo della tazza il suo futuro:
"Diventerò ancora una serpe,
il sangue di San Gennaro,
una teglia bucata per le caldarroste ...
o cos'altro?" .
Invece io leggevo solo il mio futuro, come accade sempre,
mentre a fuggire era il tempo della mia morte.
Alla fine ella si lasciò prendere,
ma era diventata una vecchia corona di rosario.
- Sei proprio tu? - Uno, due, tre e quattro -
Era proprio lei. - Non ho più voglia di conservarti,
non ho nulla da conservare -.
Ella recitò l'ultimo mistero,
ed io compresi che per venti anni probabilmente
ero stato io a fuggire e lei ad inseguirmi.
Ci ritrovammo, sempre senza teatro, in un ex manicomio,
tra pazzi in attesa di essere dimessi perché non più pazzi,
anche se loro non lo volevano sapere.
In fondo eravamo tutti lì,
in un luogo diverso
da quello in cui avremmo dovuto trovarci,
ma tra pazzi e teatranti senza casa ci si intende benissimo.
Eppure mi ero sbagliato
credendo che fossero trascorsi ventun'anni,
in realtà è passata una sola notte,
basta leggere ciò che scrissi 21 anni orsono,
o appena ieri sera.
Insomma,
io oggi non mi rimangio nulla,
non abiuro niente,
penso le stesse cose di allora,
ed ho voglia di ripetere:
Spogliati a te e vestimi a me,
anche se, amaramente,
dopo la terza notte, mi toccherà dire:
Spogliami a me e vestiti a te.

roberto de simone

(novembre 1997 )