LA GATTA CENERENTOLA

La trasposizione teatrale
(1976)

L'azione e il testo teatrale sono stati elaborati su tutti gli elementi favolistici
della tradizione scritta e di quella orale.
Nello stesso tessuto della favola di Cenerentola sono inclusi numerosi elementi
di altre favole e miti napoletani.
Lo scopo è di evidenziare quel tessuto onirico fantastico
presente nella cultura popolare meridionale,
il quale è il presupposto ad un rapporto con la realtà totalmente diversa da quella comune
e che conduce alla espressività sia musicale sia gestuale delle manifestazioni ritualizzate.
Solo in tal senso si può riscattare una " napoletanità "
apparentemente folkloristica deteriore,
evidenziando componenti e tematiche " interne " che essendo umane,
assumono significati universali.
A tal proposito i linguaggi adoperati sono diversi,
pur essendo sempre attinti dalla stessa espressività napoletana:

1) un dialetto quotidiano realistico usato normalmente in città
( sia pure oggi contaminato a diversi livelli ).
Con tale linguaggio si svolgono dialoghi atti a mettere in risalto
una realtà quotidiana di oggi come di trecento anni fa;

2) un linguaggio ritmato in moduli più teatrali e vicino alle forme melodrammatiche
( usate nelle canzoni e nelle scene più " teatralizzate";

3) un altro linguaggio tipico della tradizione viva e più pura,
con il quale si sottolinea la ritualizzazione e la mitizzazione della realtà quotidiana.
Con questo linguaggio sono state composte le azioni cantate e mimate,
ispirandosi alla viva tradizione contadina.

Si è cercato perciò di tenere presente nella forma della trasposizione,
un " barocco che è tipico della vera tradizione napoletana.
E per " barocco " deve qui intendersi una
sovrapposizione fantastica di elementi
più che un riferimento ad un preciso "stile storico " sia pure legato a Gian Battista Basile.
Le azioni cantate sono accompagnate da una orchestra di 17 elementi situati nel golfo mistico.
Con ciò ci si riferisce anche ad un teatro melodrammatico
così come era agli inizi del settecento a Napoli.
Recupero inteso non nel senso archeologico ma in senso moderno
se ancora simili strutture teatrali sono largamente usate dal popolo in Campania.
( vedi l'azione carnevalesca di " zeza " il teatro della sceneggiata,
la natalizia " cantata dei pastori" e infine la forma teatrale di Raffaele Viviani ).
La timbrica orchestrale si avvale di
un clavicembalo,
di un organo,
di due violini,
una viola,
un violoncello,
una chitarra,
un basso,
flauto,
fagotto,
due corni,
un oboe,
un trombone,
una tromba
e due percussionisti.
In questo senso le sonorità spaziano dal tessuto popolareggiante cinquecentesco
(villanelle, moresche )
da quelle dell'opera buffa napoletana
fino alle sonorità bandistiche delle " Zeze " e alle trombe della sceneggiata.
Non si fa nessun riferimento però, ad un aspetto " folkloristico " di nessun genere.
Qui è tutto inventato rimanendo rigorosamente integre
le forme espressive e i linguaggi sia musicali che verbali.

La scenografia e i costumi
La scena è ispirata ad elementi architettonici del nostro primo " barocco ":
i palazzi oggi in rovina,
dalle forme splendide e oggi adibite ad abitazioni popolari sia pure pericolanti.
Sembra quasi che in questi luoghi,
ad una antica aristocrazia,
sia potuto seguire solo la classe popolare che oggi ancora detiene una vera cultura.
In questi meravigliosi cortili
del Sanfelice,
del Fuga,
del Vanvitelli
possono perciò osservarsi lenzuola stese al sole e riunioni serali
in cui si gioca a tombola raccontando pubblicamente i fatti di tutto il quartiere.
E in ciò il cortile conserva ancora una sua antica funzione
di luogo comune e di incontro,
oggi sparito e ignorato dalle fredde e "funzionali" architetture urbane.
La proposta di tali luoghi, è sembrata la più adatta ad incorniciare una azione favolistica,
sia perché legata alla realtà popolare di oggi come di trecento anni fa.
E' infatti ancora in questi luoghi,
che si conservano oggi le matrici culturali di un popolo,
e sono questi cortili ad alimentare la viva fantasia napoletana,
non ancora distrutta dal condizionamento consumistico e televisivo.
Uguale riferimento si fa con il costume.
Rifiutando il folklorismo colorato abusato in tutti i sensi,
ci si è volti a rilevare la funzionalità,
psicologica e tradizionale dell'abbigliamento.
I riferimenti stilistici sono volti alla Napoli di Basile come tempo favolistico,
e alla Napoli quotidiana di oggi e di ieri,
urbana e contadina.

L'azione
L'azione ha inizio in un cortile dove delle donne vestite in nero giocano a tombola.
Ai frizzi e ai doppi sensi del gioco si mescolano preghiere ai santi
perché mandino dei segni, medianti i quali vincere al Lotto.
Man mano il gioco si scalda fino a che una donna scopre
che uno dei presenti è un uomo travestito da donna.
Si grida allo scandalo,
l'uomo viene spogliato e con un canto ed una azione mimica
lo si ammazza simbolicamente.
Ha termine così la prima scena e si chiudono le porte del palazzo.
In proscenio ha luogo un commento recitato atto ad introdurre la storia di Cenerentola.
Si riapre infatti il portone e si vedono tre donne che cantando una villanella,
precisano la posizione femminile della donna napoletana e le sue aspirazioni.
Una delle tre donne è Cenerentola
la quale alla fine del canto è rimproverata dalla matrigna
( il cui ruolo è coperto da un uomo ).
Vanno via le altre due donne e la matrigna nervosamente sfoga le sue ansie con Cenerentola,
dovendosi recare con le figlie al ballo del re.
Arriva una pettinatrice la quale pettina la matrigna
e costei nel farsi pettinare racconta la propria vita.
Viene così esposto un canto,
mediante il quale ella confessa di avere avuto sette mariti,
tutti morti nella prima notte di nozze.
Da ognuno di loro è nata una figlia ed eccole infatti:
sono Patrizia,
Imperia,
Diamante,
Calamita,
Sciorella
e Pascarella.
La pettinatrice va via e la matrigna invita le figlie a vestirsi
( tutte le figlie sono egualmente uomini travestiti ).
Le figlie si ritirano tranne Patrizia,
la prediletta,
che è vestita grottescamente da una sarta.
Si sente il rumore di una carrozza e la matrigna con la figlia si avviano al ballo.
Cenerentola rimasta sola,
innaffia una pianta,
libera una colomba
e si accinge a recitare il rosario.
Dal fondo allora, fantasticamente vengono quattro donne vestite di nero
( ancora uomini travestiti ),
che recitano un rosario dissacrando grottescamente la figura del padre e della madre.
Appare un " monacello " figura magica napoletana,
che invita Cenerentola a recarsi al ballo.
A tale uopo traccia dei segni magici con un corno e una scopa
e incomincia ad evocare gli oggetti e gli abiti incantati.
L'azione si tinge di ambiguità:
Cenerentola si spoglia e il " monacello " le fa indossare le calze, le scarpe, gli orecchini.
Il ritmo incalza e nel momento che Cenerentola sta per indossare il magico abito
ha termine la prima parte.

La seconda parte ha inizio con un canto
col quale si esprime un desiderio di trasfonnazione delle cose e delle persone:
" Vurria addeventare 'na palomma ".
Nel frattempo la scena si trasforma nel fantastico palazzo reale
la cui struttura ricorda anche le barocche chiese napoletane.
Quattro cameriere intrecciano un dialogo mentre corrono da un punto all'altro della scena
come se servissero un " buffet " a base di liquori, di dolciumi e di polli farciti.
Passa anche la matrigna con la figlia Patrizia
e sottolinea verso le cameriere il suo atteggiamento negativo e repressivo.
A un certo punto squillano le campanelle di una immaginaria carrozza.
Entrano degli orientali e un personaggio piumato ( travestimento gallinaceo ).
Tutti intonano una ambigua "moresca".
Cenerentola appare abbigliata nel modo più sontuoso.
Tutti spariscono,
ella resta sola nel salone dove troneggia una barocca sedia seicentesca.
Cenerentola dialoga con un invisibile re
e racconta di avere ammazzato la sua prima matrigna.
Prima della mezzanotte scappa mentre riprende il canto della precedente moresca.
E' la seconda sera del ballo:
Cenerentola ritorna indossando il secondo abito
e nel breve dialogo dice al re di essere " figlia della Madonna " e figlia di nessuno
( ossia trovatella al brefotrofio )
indi al servizio della matrigna.
Scappa di nuovo e si ripete la stessa azione della moresca.
La terza notte del ballo ella indossa l'abito col sole e la luna.
Invitata dall'invisibile re,
siede sul trono e racconta la favola di Cenerentola
nella poetica e semplice versione contadina.
La scena si illumina di azzurro sempre più chiaro
fino ad evidenziare uno scenario di piante e di alberi di limoni,
che si intravede attraverso gli archi della struttura barocca.
Scocca la mezzanotte.
Scoppia un furioso temporale,
durante il quale lei scappa mentre il coro intona una drammatica tarantella.
Cenerentola perde la magica scarpa.


La scena si rabbuia completamente,
poi mentre si esegue un intermezzo musicale si rischiara di nuovo.
Siamo ancora nello stesso cortile napoletano
dove quattro lavandaie lavano delle lenzuola e commentano l'episodio della sera precedente:
una ragazza è andata al ballo ed ha perso una scarpa.
Il re sposerà quella che calzerà la scarpetta perduta.
Interviene una zingara incinta, e predicando la fortuna,
dice però che già una scarpa era stata perduta dalla Madonna di Piedigrotta.
S'intona una canzone ironica sulla condizione della donna
che aspira a sposarsi solo per diventare una " Madonna ".
Il canto viene interrotto dalle grida di una lavandaia
la quale ha scoperto che la zingara è incinta
perché ruba i loro panni e nascondendoli sotto le vesti,
simula una eterna maternità.
La zingara scappa ed interviene un " arriffatore ",
cioè un omosessuale che porta una bambola in mano simile alla Cenerentola del ballo.
Egli vorrebbe venderla alla riffa.
Ridono le donne per la sua condizione ma si accorgono che la bambola non ha una scarpa.
L'uomo spiega ironicamente: che " quella puttana " ha ballato col re perdendo la scarpa.
Le donne iniziano un canto-gioco tendente ad eccitare l'omosessuale.
Costui balla con la bambola e incomincia a eccitarsi con le quattro lavandaie.
Ma costoro si spaventano e lo invitano a gettarsi in un pozzo che è in scena.
L'omosessuale si suicida mentre la scena si rabbuia.
Il canto prosegue per invocare il ritorno del sole e così fare asciugare i panni stesi.
Nel frattempo le donne tirano la corda attaccata alla carrucola del pozzo
da cui viene fuori un bambino in fasce.
La scena si rischiara e viene un orientale il quale al suono di un tamburo e di un piffero
porta la scarpa perduta per farla provare a tutte le ragazze da marito.
Interviene la matrigna e la sorellastra che vorrebbe per prima fare la prova.
Le lavandaie si ribellano e scoppia una rissa densa di invettive e di pesanti ingiurie.
La rissa è interrotta dal monacello che indica Cenerentola vera proprietaria della scarpa.
Si fa la prova e la magica scarpa viene infilata al piede della ragazza
da un bambino vestito da infante reale.
La prova è compiuta,
Cenerentola si allontana lentamente col seguito.
Nel cortile riprende il gioco della tombola
mentre si chiudono le porte del palazzo e quindi il sipario.


A conclusione di tutto vorrei aggiungere questo:
e cioè che tutta l'esposizione riguardante i miti antichi e l'analisi condotta
non è assolutamente una giustificazione indispensabile all'azione teatrale.
Quello che è stato esposto può costituire un retroterra culturale,
non vuole essere assolutamente una dotta disquisizione
atta a giustificare e a valorizzare un'azione teatrale.
Il teatro è teatro
né si è costruito un testo e una musica da tradurre solo in elucubrazioni intellettuali.
L'azione è estremamente semplice
e nella sua teatralità si può giustificare e si deve recepire sia pure a livelli diversi.
Il linguaggio usato non è né oscuro, né per iniziati o " addetti ai lavori " solamente.
Gli elementi simbolici sono stati elaborati spontaneamente
e così usati nel tessuto teatrale dell'azione.
Essi sono stati impiegati perché facenti parte dell'intero emotivo di chi li ha usati
e collocati fantasticamente nell'azione.
In tal senso un'adesione ci può essere da parte di chi assiste non per il colto presupposto,
ma perché i contenuti sintetizzati dai segni impiegati,
sono gli stessi di qualsiasi umanità
e sono comunicati con un linguaggio massimamente emotivo.
Se, come si diceva, la promessa apparisse una pretenziosa giustificazione
e fosse intesa come una guida per intendere solo "razionalmente" la stessa favola,
essa per intendere solo " razionalmente " la stessa favola,
essa deve ritenersi un involontario errore di chi l'ha scritta.

roberto de simone